lunedì 27 luglio 2009

il libero arbitrio nella scelta del biotestamento

Oggi 27 luglio 2009, la rassegna stampa di Palazzo Chigi riporta un articolo de Il Messaggero (LINK) in cui Gianni Alemanno, tra considerazioni di diverso tipo, si dice convinto che la legge uscita dal Senato sul testamento biologico non debba essere modificata. Il Sindaco di Roma, con una mossa che intende forse distinguerlo da Gianfranco Fini, pensa che se il Governo riuscirà a farla approvare definitivamente, sarà il fatto costitutivo del Pdl, superiore a qualsiasi altro elemento.

Sul tema del biotestamento, molto caldo ai tempi della vicenda di Eluana Englaro, neppure un quotidiano tradizionalmente mite come La Stampa, riesce a mantenere toni pacati. Nell'articolo di martedì 14 luglio a pagina 12 (LINK), si parla di "Battaglia sul biotestamento", di "centro della bufera", di testo anti-eutanasia "che spacca trasversalmente le forze politiche tra laici e cattolici".



Mi chiedo perchè la difesa della vita sia sempre descritta come un appannaggio esclusivo della Chiesa cattolica. Anche nel mondo laico ci sono da sempre appassionati difensori della pace e della giustizia che, osteggiando e guerre e chiedendo la libertà, lavorano per la vita. Lo sforzo che si richiede ai nostri legislatori, è quello di operare una straordinaria sintesi che raccolga democraticamente le istanze di libertà e di rispetto della vita che salgono da tutto il paese. Nessuno, su nessun fronte, sta dalla parte della morte a tutti i costi. Se ammettiamo, come dobbiamo fare, che per molti la vita non ha nulla di sacro, dobbiamo anche porci il problema di rispondere alle richieste di chi vuole la libertà di scelta, in tema di cure e di supporto estremo alla vita. E' vero quanto dice il cardinale Raffaele Martino che "il diritto all'acqua e all'alimentazione rientra nel diritto alla vita". Ma è anche vero che la legge che molti vorrebbero approvare, stabilirebbe invece una sorte di "obbligo all'acqua ed all'alimentazione", anche contro la chiara volontà di chi non li volesse. "La Chiesa" prosegue il cardinale "ha il dovere di illuminare la strada". Mi chiedo però se questo debba comportare necessariamente, l'imporre in modo generalizzato, soluzioni basate su valori non condivisi da tutti. Mi incuriosisce come si passi dall'illuminare, al costringere, facendo un salto concettuale che neppure il Signore in persona ha mai inteso fare, quando ha lasciato a tutti, credenti e no, il dono del libero arbitrio.

Chiuso il discorso di principio, bisogna però lavorare per cercare una proposta concreta. Il principio della prudenza che opera in tutte le persone saggie, porta certamente a fare scelte di natura così fondamentale ed intima, con estrema cautela. Una volta che si è morti, è chiaro a tutti che la vita terrena è finita per sempre. E' prudente far si che le soluzioni che agevolano il temine della vita, siano rese meno rapide e siano più controllate, di quelle che vanno nella direzione contraria. Nessuno vorrebbe aver agevolato troppo la fine di una vita, pur di estrema sofferenza, scoprendo dopo poco tempo che ci sarebbe stata una cura, od una soluzione migliori. Nessuno dovrebbe poter forzare la mano della disperazione, in difesa del pur nobilissimo ideale della libertà di scelta. Il problema di fondo è insito nelle profondità e nelle depressioni di una vita di sofferenza, portatrice di solitudine e distruttrice di speranza, troppo lontana dai nostri moduli quotidiani.

Ecco un piccolo esame che ciascun cittadino italiano, sia pro alimentazione forzata, che contro, alla vigilia dell'approvazione autunnale della legge sul biotestamento, potrebbe fare: chiedersi cosa faccia individualmente per rendere un po meno disagevole la vita di chi soffre quotidianamente, le privazioni di un'infermità. Temo che sia individualmente, che come società, ci preoccupiamo troppo delle nostre esistenze piene di impegni, per portare un aiuto od anche solamente un sorriso a chi combatte eroicamente contro la sofferenza, ogni minuto della sua esistenza. Certo il discorso non vale per tutti allo stesso modo; per pochi, forse pochissimi, questo esame potrebbe ben dirsi superato a pieni voti. Gli altri probabilmente preferiscono indignarsi contro chi la pensa diversamente da loro sul tema in questione, continuando bellamente a non fare nulla di concreto.

Una cosa concreta potrebbe essere il cercare una soluzione che salvi la libertà di scelta degli individui, dalle imposizioni di una legge troppo da "stato etico", come pure da quelle della disperazione e dell'abbandono. Ambedue le situazioni possono influenzare anche troppo, la sacrosanta libertà, chiamiamola arbitrio, che ciascuno di noi ha avuto in dono per il solo fatto di esistere. Ed allora basterebbe che chi porta avanti un'astratta battaglia per il predominio del suo esclusivo punto di vista, si armi di buonsenso e cerchi di fare un passo verso le regioni della controparte.

Una proposta originale
In ultima istanza nessuno vuole sottoscrivere l'obbligo di accanimento terapeutico. Quando si parla però di acqua e di cibo, le cose cambiano. In fondo, a ragionarci bene, quest'ultima pratica forza la permanenza in vita, in modo simile a quanto possono farlo molte cure. Per poter rifiutare questo accanimento, si deve partire da una manifestazione di volontà formale dell'interessato. Questa volontà deve essere espressa senza condizionamenti di sorta e motivata in modo chiaro, senza formule preordinate, per intenderci. Ben venga un esame fatto da una sorta di comitato etico attrezzato per valutare la maturità e l'effettiva libertà di questa scelta. La disperazione di uno stato di abbandono effettivo, di isolamento da quegli interessi e quelle passioni che riempiono la vita, non dovrebbero poter agire indisturbati nello spingere verso la decisione di rinunciare al sostentamento forzato. Non ci si può impegnare in una legge che apra la strada al lasciarsi morire per fame e per sete, se contemporaneamente non si da sostegno a concrete politiche di aiuto alle persone gravemente disabili. Oggi in Italia essere disabile è doppiamente difficile. Ci si deve barcamenare tra una serie di enti e di istituzioni poco collegate tra di loro. Ci si deve attivare, girando uffici e dedicando molto tempo, anche solo per capire quali domande fare ed a chi. Il senso di abbandono è reale, per nulla mitigato dal fatto che poi, alla fine, alcuni aiuti arrivano. Bisogna quindi che ci sia un supporto completo ed efficientissimo da parte dello Stato, garante dell'obbligo costituzionale di rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l'eguaglianza dei cittadini. Si potrebbe pensare ad un ente centrale che informato dei casi di grave disabilità, possa intervenire d'ufficio per coordinare gli enti locali a sostegno dei cittadini svantaggiati e delle loro famiglie. Lo scopo deve essere quello di arrivare sempre e comunque ad un supporto che restituisca a questi cittadini quanto il destino gli ha sottratto, compresi gli interessi e gli impegni che danno la gioia di vivere. Immagino che a questo punto le teste dei lettori scuotersi, come a significare che stanno leggendo una sorta di teorico libro dei sogni. Io credo che si possano davvero fare grandi cose, con il coraggio e la volontà che non abbiamo davvero il diritto di negare alle nostre azioni.

Resta il fatto che pur con tutti i supporti e l'aiuto del mondo, alcuni vogliano veramente rifiutare trattamenti pur fondamentali per restare in vita. Qui la libertà deve fare i conti con l'autorità. Quest'ultima non può tenere soggiogati gli individui, sulla base di scelte giuste per alcuni e sbagliate per altri. Può però imporre tempi e spazi di conferma delle decisioni estreme, che garantiscano per quanto ragionevolmente possibile, da ripensamenti o dal venir meno a responsabilità verso altri. Che ci sia spazio per ribadire questa volontà, precedentemente espressa in modo valido, anche attraverso rappresentanti. Che ci sia l'onere di ribadire quasta volontà in una serie di gradi successivi di valutazione, in cui sia nuovamente vagliata l'assenza di interessi estranei all'originaria volontà dell'interessato. Che ci sia un tempo minimo che debba trascorrere prima di dare piena espressione a questa forma ultima e definitiva, di libertà. Ma che ci sia anche il rispetto e la pietà di riconoscerla, questa libertà. Il principio di prudenza posto a basamento, non di un rifiuto, ma di un percorso serio e meticoloso. Il rispetto di ogni singolo individuo, la carità d'animo che gli dobbiamo, è la sola vera strada per esprimere quanto di più alto possiamo dare. Non ergiamo recinti per tenere fuori tutto questo, solo per garantirci una maggiore tranquillità d'animo. Le cose giuste, costano sempre un prezzo. Sta a noi il coraggio di volerlo pagare.

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dal Blog LEXCIVILIS di Edoardo Capulli